Il mondo degli affari è stato recentemente scosso dal collasso di WeWork, gigante del settore del coworking. Il 6 novembre scorso, infatti, la società di coworking ha dichiarato insolvenza, presentando istanza per la procedura di amministrazione controllata secondo il chapter 11 della legge fallimentare statunitense.
La notizia segna l’apice di uno dei fallimenti più clamorosi nel mondo delle start-up americane, particolarmente curiosa perché avviene in un periodo di ripresa del settore dopo l’arresto causato dalla pandemia di Covid-19, con la domanda di spazi condivisi per uffici in forte ascesa.
Vediamo allora cosa è successo all’azienda americana che fino a pochi anni fa vantava una valutazione di addirittura 47 miliardi di dollari e quali saranno i risvolti per il mondo del coworking e dei business center.
WeWork: un unicorno con un modello interessante
WeWork è stata fondata da Adam Neumann, Miguel McKelvey e Rebekah Neumann nel 2010. La società ha avuto inizio come una piattaforma di coworking, offrendo spazi di lavoro condivisi a freelancer, imprenditori e piccole imprese. L’idea di base di WeWork era quella di creare un ambiente di lavoro flessibile e collaborativo, in cui le persone potessero condividere spazi, risorse e idee.
Il modello proposto ha avuto grande successo. Negli anni successivi, infatti, WeWork ha sperimentato una crescita esplosiva. La società ha rapidamente ampliato la sua presenza in molte città in tutto il mondo, diventando uno dei principali attori nel settore del coworking.
WeWork ha attirato così l’attenzione degli investitori e ha raccolto miliardi di dollari in finanziamenti, raggiungendo nel 2019 una valutazione di mercato di ben 47 miliardi di dollari.
Una gestione finanziaria discutibile
Ma cosa ha determinato allora la caduta di questo gigante, l’unicorno che sembrava destinato ad una crescita senza limiti? Probabilmente, è stata proprio la scarsa lungimiranza e un’inadeguata valutazione dei rischi che hanno portato la società ad acquisire costosi contratti di locazione di lunga durata in tutto il mondo.
Infatti, appena la domanda è venuta a mancare, la società è andata in difficoltà. I lockdown durante la pandemia di Covid-19 hanno letteralmente svuotato le città e i co-working, causando perdite gravissime alla società.
A quest’evento eccezionale e per certi versi imprevedibile, va aggiunta la gestione spregiudicata dell’amministratore delegato Adam Neumann, che era già stato allontanato verso la fine del 2019, travolto dalle polemiche per i suoi conflitti d’interesse (comprava edifici in proprio e li riaffittava a WeWork).
Prospettive future per il mondo degli uffici condivisi
Nonostante i recenti eventi che hanno travolto WeWork, le tendenze del mondo del lavoro suggeriscono che l’exploit degli uffici condivisi sia tutt’altro che terminato.
La pandemia ha sì causato un crollo evidente nel 2020, ma ha anche fatto conoscere lo smart-working ad aziende e lavoratori in tantissimi settori. Se prima della pandemia il numero di lavoratori da remoto era di 570mila unità, nel 2022 il numero si era assestato a 3,6 milioni di persone. Gli spazi di lavoro flessibili sono tornati a crescere dopo la pandemia, soprattutto al sud Italia dove l’aumento è stato addirittura dell’81%.
Dopo la pandemia si è accentuato il fenomeno del south working(il ritorno nelle città d‘origine dei lavoratori del Mezzogiorno trasferitisi al nord per motivi di lavoro) che ha contribuito alla crescita di domanda di spazi di lavoro condivisi.
A ciò si aggiunge il fatto che molte aziende e anche amministrazioni comunali e regionali stanno favorendo spazi di lavoro flessibili a discapito dei grandi impianti centralizzati, incentivando la pratica del near-working, un approccio urbanistico che mira ad avvicinare le persone ai luoghi delle loro attività sociali.
In quest’ottica, gli spazi di coworking, gli uffici condivisi e gli hub lavorativi rappresentano soluzioni vantaggiose, che permettono di ridurre i tempi di viaggio e di migliorare lo stile di vita e il benessere dei lavoratori.
Negli ultimi anni, il concetto di uffici condivisi ha guadagnato grande popolarità, grazie anche all’attività di grandi società proprio come WeWork che hanno contribuito a ridefinire il modo in cui le persone concepiscono e svolgono il lavoro.
Il collasso a cui è andata incontro la società statunitense sembra essere più legato alla sostenibilità delle politiche aziendali in tema di investimenti che non alla popolarità in sé del format.
Il pubblico di lavoratori digitali, nomadi e freelancer ha dimostrato di apprezzare i valori della flessibilità e della condivisione e quel senso di comunità che si crea tra professionisti di settori diversi che condividono gli stessi spazi di lavoro.
Resta da chiedersi che fine faranno le aziende e i lavoratori di base in un WeWork. L’azienda per ora ha fatto sapere che ha deciso di non rinnovare i contratti di locazione soltanto di alcune sedi “non operative” e che il provvedimento riguarda solo Stati Uniti e Canada.
Quello che sembra certo è che difficilmente i lavoratori abituati all’atmosfera vivace e stimolante del coworking torneranno in uffici di stampo tradizionale. Più probabile che cercheranno soluzioni in condivisione quanto più vicine possibili alle loro abitazioni, come sta già accadendo in Italia.